domenica 9 giugno 2013

la voce dei padri


Cou.cou.ja non è certo tipo da frase ad effetto, battuta sferzante, espressione secca e risolutiva che porta l’interlocutore a rispondere unicamente con una neanche troppo silenziosa deglutizione. Oddio, non che non riesca a trovare la giusta parola, l’“uno a zero per me  partita chiusa”.
È solo una questione di tempi.
Anni e anni di misurazioni condotte sul campo hanno fissato a una media di 6/12 ore l’intervallo cronologico necessario affinché la complessa meccanica cerebrale di cou.cou.ja cominci a marciare a pieno regime e, oliata quanto serve, riesca a portare a termine con risultati accettabili il tormentato processo di produzione che le compete.
Chi non ricorda il Buon Suggeritore di Amelie, che, nascosto nella buca del teatro, valeva a fornire la risposta in grado di tacitare perfino l’oratore più irriverente e spocchioso?
Orbene, nella vita di cou.cou.ja il Buon Suggeritore è certo presente; il punto dolente della questione è che egli arriva quando il sipario è stato calato da un pezzo e le porte del teatro sono state chiuse a doppio giro di chiave.
Senza contare che, oltre che di tempi, spesso è anche questione di modi e, ciò che in fondo è lo stesso, di quantità.



Cou.cou.ja, cui non si può di certo ascrivere il dono della sintesi, di rado è in grado di esprimere il proprio sentire con un numero di vocaboli pari a quello che statisticamente viene recepito dall’intelletto dell’uomo comune. Così di frequente accade che la verbosità delle sue argomentazioni remi contro l’efficacia del concetto e, quasi che sia capace di invertire l’ordine degli elementi del discorso, produca un effetto diametralmente opposto alle intenzioni. Alle volte però succede pure che, quanto più la sua mente si perde nei gorghi della retorica, tanto più il Caso, cinto del mantello di un modesto ma tanto provvidenziale super-eroe, plani dall’alto sul sentiero battuto dai passi di cou.cou.ja e…


Eccola qua, appena accennata, come bisbigliata tra le carte luccicanti di uno snack e il pet colorato di altrettanto policromatiche bevande occhieggianti dall’ingresso della biblioteca comunale: la frase ad effetto, la voce di uno stanco disinganno, la sintesi di uno stato d’animo che, dopo lungo tempo, ha il sapore del risveglio.



E piace a cou.cou.ja che l’umore più della notte buio parli la lingua di sua mamma e della mamma di sua mamma, perché è la stessa lingua dei rimproveri più feroci e delle tenerezze più dolci della sua infanzia e, qui e ora, delle sincere e convinte proteste popolari.
Non si dica tuttavia che l’umor nero di cou.cou.ja tradisce gli intendimenti di queste pagine, perché, mementote, anche il nero è colore. E che colore!




Miséru s’anzone chi isettat latte dae su mariane
Infelice quell’agnello che si aspetta di ricevere latte dalla volpe
  
jupe tablier asimmetrica in gabardine di cotone  decoro a ricamo in punto indietro con appliqué (disegni di Veska Abad)  patron Natsuno Hiraiwa


couture thérapie


Cou.cou.ja è una mamma.
Quanto al genere di genitrice cui ella appartiene, dopo attenta valutazione e argomentazioni varie, è fuor di dubbio che non la si possa ascrivere al tipo “madre-apprensiva-ansiosa-iperprotettiva”: niente di più lontano dalla sua indole e dal suo naturale sentire.
Perché, in effetti, il tipo testé descritto corrisponde al livello 1 di un sistema di riferimento all’interno del quale cou.cou.ja si colloca con baldanzosa fierezza al livello 1000.
Tralasciamo qui il contesto sanitario  sarebbe come sparare alla croce rossa, è il caso di dire , nel quale cou.cou.ja, a suo agio assai più che su una comoda poltrona con seduta e schienale imbottiti di piume d’oca, dà il meglio di sé subissando il misero pargolo, al solo sentire un innocente e neanche troppo convinto etciù, di ripetuti e snervanti interrogativi tesi ad appurare una condizione di salute certamente (e come potrebbe essere altrimenti?) risolvibile con un pronto e tempestivo ricovero ospedaliero, tanto da costringere la sventurata creatura a negare con forza l’evidenza dello starnuto occultandola sapientemente sotto il manto artificioso del “colpo di tosse” (tosse? TOSSE? peggio, stellina mia, peggio; vestiti, su, ché andiamo dal dottore, non possiamo proprio andare avanti così).
Addentriamoci meglio nel dominio comportamentale.
No, no, non citiamo l’orrore espresso a discapito di qualsiasi attività motoria che ardisca spingersi al di là la semplice  e pacata  camminata. Regrediamo. Oltre il principio della deambulazione, anticipato da un incerto gattonamento contrappuntato di frequenti culate cui la madre previdente intendeva ovviare con l’acquisto, e uso s’intende, di un apposito casco di protezione che l’infante avrebbe dovuto tenere giusto il tempo riservato quotidianemente alla locomozione, e cioè a dire l’intera giornata (ma per dormire glielo tolgo, eh!). Oltre le incertezze che hanno costellato la lallazione, sospetta a dire della arguta genitrice cui ora spetta l’obbligo del contrappasso pagato con ore, dico ore, di chiacchiera ininterrotta. Fino alle incertezze gravidiche causate da un eccessivo (questo continuo su e giù lo farà ingarbugliare attorno al cordone ombelicale e ne causerà lo strozzamento, lo so) o ridotto (non si muove! non si muove? perché non si muove? muoviti!) movimento fetale.
Eppure solo recentemente l’espressione somma e antonomastica, la suprema sineddoche del “tipo” ha preso vita.
Un malriuscito salto che, secondo le intenzioni di Toporagno, avrebbe dovuto di lui fare il novello  Patrick de Gayardon, compromesso forse dall’effettiva indisponibilità della tuta alare, forse da un più banale errato calcolo delle distanze non disgiunto dall’ardimentosa ambiziosità del progetto, ha fatto franare la giovane promessa del paracadutismo prima a terra e, di riflesso, sul bordo acuto di una fioriera in pietra. La conseguente lacerazione del cuoio capelluto e relativo spargimento di sangue hanno imposto un immediato trasferimento in ospedale dove madre-coraggio ha dato prova del suo proverbiale autocontrollo collocandosi ad un passo dalla perdita dei sensi al solo udire l’immondo vocabolo “sutura”. Ciò che ha causato la traslazione presso i locali del pronto soccorso nel rispetto della seguente formazione: precedono eroico padre e basito marmocchio saldamente avvinghiato alle braccia del suddetto, seguono, quasi prossima al decesso, madre, vilmente assisa su sedia a rotelle, e infermiera, temporaneamente addetta al di lei trasporto.
Vien da sé che le condizioni di cou.cou.ja la sera del tragico evento, a distanza di qualche ora dalla sciagura, non fossero esattamente paragonabili a quelle di un abitué dei resort a cinque stelle.


Occorreva una terapia d’urto, un rimedio che fosse ancor più efficace delle 50 gocce di estratto di valeriana/passiflora/biancospino tracannate con la stessa avidità con cui l’assetato del deserto beve il suo orcio d’acqua.

  

La couture thérapie ha fatto miracoli: un’essenziale e forse anche un po’ banale t-shirt di cotone, una modesta rielaborazione di alcune illustrazioni di un artista sapiente, qualche quadrato di tessuto colorato, il lirismo struggente di un poeta locale e il gioco è fatto: il cadeau per Super-Mom è pronto.


Con buona pace per le ore di sonno perso e di serenità riconquistata.

… sa luna in mesu chelu tunda / andaiat serèna vagabunda / che femmina chi chircat un’amigu (Antioco Casula  Montanaru)
… la luna rotonda in mezzo al cielo andava serena vagabonda come una donna alla ricerca di un amante (trad. Duilio Caocci)





T-shirt cotone bianco  costumisation (disegno appliqué: Antonello Cuccu)

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